• Ottobre 9, 2025
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di Alessandra Schofield




Censis Il coinvolgimento aumenta il benessere dei lavoratori e la produttività. Il rapporto “Engagement e produttività”, promosso da Philip Morris Italia e realizzato dal Censis, analizza il nesso fra coinvolgimento dei lavoratori, motivazione e produttività. L’indagine, articolata in due fasi, prevede una survey su un campione rappresentativo dei lavoratori dipendenti italiani e un ciclo di interviste a responsabili delle risorse umane e a esperti del lavoro, con l’obiettivo di far emergere i fattori che accrescono o erodono l’impegno, influendo sui risultati d’impresa, sul clima organizzativo e sulla valorizzazione delle competenze.
Secondo i dati Gallup riportati nel Report, il basso livello di engagement (il coinvolgimento, appunto)a livello globale, genera una perdita di produttività stimata in 438 miliardi di dollari. In Italia, soltanto il 10% dei lavoratori si dichiara realmente coinvolto, un valore inferiore rispetto a quello dei Paesi europei più virtuosi, come la Romania, che raggiunge il 35%, e la Svezia o l’Islanda, che si attestano fra il 24% e il 29%. Soltanto il 49% degli italiani ritiene che questo sia un buon momento per cercare un nuovo lavoro, contro l’87% registrato nei Paesi Bassi, mentre il 37% manifesta l’intenzione di cambiare impiego, una percentuale elevata nel confronto europeo.
Sotto il profilo macroeconomico, tra il 2019 e il 2024 il valore aggiunto in Italia è aumentato dell’1,3%, così come le ore lavorate, con il risultato di una produttività invariata pari a 0,0%, a fronte di una crescita media dello 0,5% nell’Unione Europea. Il dato conferma un ritardo strutturale della produttività italiana, che risente anche di fattori organizzativi e culturali.
L’indagine condotta dal Censis evidenzia che il 29,4% dei lavoratori italiani si considera molto motivato e il 49,9% abbastanza motivato, mentre il 20,6% dichiara di avere una motivazione bassa o nulla. Il grado di motivazione cresce con l’età: fra i 18 e i 34 anni la quota dei “molto motivati” è del 24,5%, mentre tra gli over 55 raggiunge il 37,5%. I lavoratori con ruoli intermedi risultano più motivati di coloro che ricoprono mansioni esecutive, rispettivamente con il 32,2% e il 26,1% di “molto motivati”.
Il fenomeno del disimpegno si lega a quello del disallineamento fra competenze e ruolo e alla perdita di centralità del lavoro nella vita delle persone. Soltanto il 27,2% dei lavoratori giudica le proprie competenze perfettamente allineate alla mansione, con una media che scende al 20,2% fra i giovani e sale al 30,2% fra gli over 55. Il 13,7% segnala un disallineamento marcato, mentre il 47,8% ritiene che il lavoro abbia perso importanza o non sia mai stato un elemento centrale della propria esistenza. Nel tempo, il 17,4% dei lavoratori afferma di avere assunto un atteggiamento più distaccato o pragmatico, il 7,1% dichiara di essersi disilluso, e solo il 6,2% riferisce un maggior coinvolgimento rispetto al passato.
Il 44,3% dei lavoratori ha preso in considerazione l’idea di cambiare impiego nell’ultimo anno, con una percentuale che sale al 64,6% tra i giovani e scende al 15,8% tra gli over 55. Le ragioni principali sono l’aumento della retribuzione (39,5%), la riduzione dello stress o dei carichi eccessivi (28,7%), la ricerca di una maggiore soddisfazione professionale (21,5%) e migliori prospettive di carriera (18,7%). Seguono motivazioni legate alla coerenza valoriale con l’azienda, ai benefit e alla distanza casa-lavoro. Le differenze di genere mostrano che gli uomini sono più orientati all’incremento retributivo, mentre le donne evidenziano un peso maggiore dello stress; i più giovani attribuiscono maggiore importanza ai benefit.
Le cause principali del disimpegno riguardano la retribuzione inadeguata, indicata dal 50,7% dei rispondenti, la mancanza di riconoscimento e apprezzamento (36,9%), lo stress eccessivo o la cattiva organizzazione del lavoro (33%), le difficoltà di conciliazione vita-lavoro (22,1%) e le aspettative crescenti non accompagnate da un adeguato riconoscimento (21,2%). Tra i giovani prevale la richiesta di riconoscimento (42,1%), nella fascia 35–44 anni emergono l’equilibrio vita-lavoro (30,8%) e le opportunità di crescita (23,1%), mentre tra gli over 55 aumentano le criticità relative alla leadership e alla gestione (22,8%) e i timori per l’automazione (7,6%).
Il disimpegno non incide solo sulla performance individuale ma anche sul clima aziendale e sulla capacità delle organizzazioni di trattenere i talenti. Un lavoratore su tre (33,3%) ritiene che esso abbia un impatto significativo sulla produttività della propria impresa, mentre un ulteriore 30,5% ne riconosce un impatto moderato. La percezione cresce con l’età: fra gli over 55 la quota sale al 45,2%, mentre fra i giovani si ferma al 25,4%. Considerando l’intero sistema del lavoro, il 38,3% degli intervistati giudica l’impatto del disimpegno “significativo”, con un picco del 51,6% fra gli ultra-cinquantenni.
Le misure ritenute più efficaci per aumentare l’engagement riguardano un miglioramento delle retribuzioni (54%), una maggiore attenzione al benessere e alle condizioni di lavoro (40%), un incremento del supporto e dei benefit (32%), una più ampia flessibilità negli orari e nel lavoro da remoto (26,9%) e la riduzione dell’orario di lavoro (24,5%). Le priorità variano con l’età: i lavoratori di mezza età privilegiano flessibilità e riduzione del tempo di lavoro, mentre i più giovani richiedono benefit e opportunità di crescita.
Nelle interviste ai responsabili delle risorse umane, emerge un approccio organizzato al monitoraggio dell’engagement, tramite survey periodiche anonime, colloqui individuali e analisi dei tassi di turnover. I responsabili ritengono che le cause del disimpegno siano prevalentemente interne, legate alla leadership, ai carichi di lavoro e alla comunicazione aziendale. Le azioni correttive si concentrano sul sostegno al benessere, anche psicologico, sulla flessibilità organizzativa orientata ai risultati, sulla trasparenza comunicativa e sulla promozione di attività extra-lavorative per rafforzare il senso di appartenenza. Viene inoltre valorizzato l’investimento in percorsi formativi e di sviluppo professionale.
Gli esperti del lavoro, intervistati nella seconda fase dell’indagine, sottolineano che l’attuale contesto di incertezza ha modificato profondamente il rapporto fra lavoratore e impresa. L’engagement viene riconosciuto come un tema centrale non solo organizzativo ma anche di sistema, con implicazioni per la contrattazione e la rappresentanza. Gli esperti indicano la necessità di ripensare i processi formativi e di evolvere dal concetto di welfare a quello di wellness, in un quadro in cui i lavoratori, specialmente i più giovani, attribuiscono crescente importanza al benessere individuale e al bilanciamento vita-lavoro.
Il rapporto si conclude sottolineando che la maggioranza dei lavoratori italiani si dichiara complessivamente motivata, con il 79,3% che afferma di sentirsi almeno abbastanza coinvolto nel proprio lavoro, mentre il 20,7% manifesta un basso livello di motivazione. La retribuzione, il riconoscimento e il benessere emergono come i fattori più determinanti per rafforzare l’engagement, in un contesto in cui la produttività nazionale rimane ferma e il capitale umano rappresenta la leva decisiva per la ripresa.

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